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Enea. Cenni Mitologici
Enea (greco: Αἰνείας; latino: Aenēās,
-ae) è una figura della mitologia greca e romana, figlio del mortale Anchise (cugino
del re di Troia Priamo), e Afrodite/Venere, dea della bellezza. Principe dei Dardani,
partecipò alla guerra di Troia dalla parte di Priamo e dei Troiani.
Guerriero valorosissimo, assume tuttavia un ruolo secondario all’interno
dell’Iliade di Omero.
Enea è il protagonista assoluto dell’Eneide di Virgilio: le vicende
successive alla sua fuga da Troia, caratterizzate da lunghe peregrinazioni e da
numerose perdite, favorite dall’ira di Giunone, si concluderanno con il suo
approdo nel Lazio e col suo matrimonio con la principessa Lavinia, figlia del re
locale Latino.
L’eroe destinato dal Fato alla fondazione di Roma trascorse l’infanzia e la
prima giovinezza sul monte Ida, sul quale si appartò poi a vivere serenamente
col padre Anchise, la
moglie Creusa e il figlioletto Ascanio, nei primi
tempi della guerra di Troia, alla quale egli, amante della pace, era contrario.
Ma fu costretto a prendere le armi per difendere se stesso e la vita dei suoi
cari il giorno che arrivò sull’Ida
Achille con i suoi Mirmidoni, che egli respinse con coraggio e accanimento.
Coinvolto ormai nella guerra, prese parte a diverse azioni, finché Troia cadde
ed Enea assistette con estrema angoscia alle ultime ore della città; con un
gruppo di compagni tentò di opporsi ai nemici combattendo, finché la madre
Afrodite gli mostrò l’inutilità del
suo gesto, rivelandogli che il destino gli affidava un compito molto più
importante: cercare la salvezza e un futuro in una nuova patria, portandovi i
Penati di Troia.
La notte in cui i greci sarebbero usciti dal
cavallo di legno, gli apparve in
sogno Ettore, che gli annunciò
l’inevitabile caduta di Troia e il
suo arrivo in Italia. Durante l’incendio della città tentò, insieme a pochi
uomini, di difenderla ma dopo aver capito che tutto ciò era ormai inutile,
decise di fuggire portando con sé il padre Anchise sulle spalle e il figlio
Ascanio. Durante la fuga perse però
la moglie Creusa che, sotto forma di fantasma, gli rivelò il suo futuro di
fondatore di un grande popolo.
Nella Iliou Persis,
invece, Enea scappava da Troia con i suoi seguaci subito dopo la fine
di Laocoonte, avendo intuito grazie a quell’episodio l’imminente caduta della
città.
Secondo Omero Enea divenne fondatore di un grande regno nella Troade, la
versione di
Stesicoro (Tisia), invece,
consacrata da
Virgilio, è quella più conosciuta.
Enea fuggì da Troia via mare: insieme
a lui si aggregarono molti troiani e anche vari guerrieri provenienti da altre
regioni che avevano preso parte al conflitto come alleati.
Molte furono le tappe del viaggio, pieno di avventure, contrattempi, episodi
dolorosi, avvenimenti prodigiosi. I profughi furono dapprima in
Tracia, dove Enea parlò con l’ombra
di Polidoro, l’infelice figlio di
Priamo: il padre l’aveva mandato, perché si salvasse insieme con buona parte del
tesoro troiano, presso il re del luogo,
Polimestore, il quale però, alla notizia della caduta di Troia, l’aveva
fatto uccidere per impadronirsi del tesoro.
Lasciato quel luogo, Enea andò a Delo
a consultare l’oracolo, che lo esortò
a cercare la sua antica patria; pensando che l’oracolo alludesse a Creta, da cui proveniva uno dei più
antichi re di Troia, si recò quindi in quell’isola; ma i Penati gli apparvero in
sogno avvertendolo che la terra che doveva cercare, l’Enotria o Italia, era più ad ovest. Si accinse quindi a attraversare il
mar Ionio; ma la
dea
Giunone, a lui avversa,
suscitò una violenta tempesta che spinse le navi sulle
isole Strofadi, da cui i profughi furono
costretti a ripartire subito dalle mostruose Arpie guidate da Celeno,
che si erano gettate in volo sui loro cibi, contaminandoli.
Enea si recò allora in Epiro da
Eleno, uno dei figli di Priamo che,
come sua sorella Cassandra, era
dotato del dono della profezia, e annunciò all’amico di recarsi in Italia,
cercando di evitare la terra di Sicilia,
patria dei ciclopi e di
Scilla e
Cariddi. Consigliò invece
di sbarcare presso Cuma per chiedere
responso alla Sibilla che lì abitava.
Lasciata Butroto Enea, seguendo il consiglio di Eleno, si diresse verso
la Sicilia, la circumnavigò per evitare Scilla e
Cariddi e i troiani si salvarono per un pelo da quella minaccia e sbarcarono
vicino l’Etna, dove si unì alla loro
flotta Achemenide, un compagno di Ulisse abbandonato in
quella terra. Enea sbarcò in Italia nell’attuale Salento, a Porto Badisco. Dopo aver assistito al
terribile arrivo del ciclope Polifemo, Enea e i suoi uomini
si fermarono a Erice, benevolmente
accolti dal re Aceste, dove il
vecchio Anchise morì e fu sepolto. Giunone, piena d’odio per i troiani, scatenò
una tempesta contro la flotta che venne trascinata verso l’Africa.
Lì Enea e i suoi uomini vennero accolti dalla
regina Didone, a
Cartagine dove l’eroe narrò le sue
terribili vicende. I due si innamorarono perdutamente ma, per ordine di
Zeus, Enea dovette ripartire. Seppure
a malincuore dovette dire addio a Didone. Fu un terribile colpo per la povera
regina. Didone, guardando in lontananza la nave di Enea che si allontanava, si
uccise.
L’eroe troiano e i suoi compagni, partiti alla volta dell’Italia sbarcarono di
nuovo a Erice e continuarono il tragitto. Arrivarono finalmente in Italia, a
Cuma, dove Enea dovette fermarsi per
interrogare la Sibilla; ma prima
di scendere con lei nel regno dei morti,
dette sepoltura al trombettiere Miseno sul
promontorio che da lui prese il nome di Capo Miseno: costui aveva osato sfidare gli dei ed era stato precipitato in mare dal dio Tritone.
La Sibilla lo accompagnò nell’ Averno perché egli ottenesse dal
padre notizie sui suoi discendenti e sulle vicende che ad essi sarebbero state
legate. Lì incontrò Caronte e Cerbero, che
cadde addormentato per un inganno della sibilla. Giunto ai campi del pianto vide
poi il triste spirito di Didone.
Incontrò in seguito l’anima di Deifobo, il cui cadavere era stato sfregiato da
Menelao. Infine venne accolto dal padre Anchise che gli presentò le anime di
coloro che avrebbero fatto grande il regno promesso a Enea in Italia.
Tornato nel mondo dei vivi, Enea sbarcò finalmente alle
rive del Tevere, e qui avvenne un prodigio: le navi si tramutarono in ninfe e si
allontanarono in mare, e da ciò Enea comprese di essere arrivato nel luogo
designato dagli dei, dove le sue peregrinazioni sarebbero finite. Qui morì
Caieta, la sua nutrice
ed egli la fece seppellire nel luogo che
si sarebbe poi chiamato Gaeta in suo
ricordo. Il re di Laurento, Latino,
decise di affidargli la mano della figlia
Lavinia, scatenando però così l’ira di Turno, il re
dei Rutuli, cui
la fanciulla era stata promessa. Turno radunò i suoi uomini e mosse contro i
troiani, ma cadde sotto i colpi dell’eroe troiano.
Con la morte di Turno finisce in
Virgilio la storia delle peregrinazioni di Enea, ma le leggende antiche
tramandavano le sue ultime vicende, raccontando che durante un combattimento
contro gli Etruschi, che erano stati
alleati di Turno, nel culmine di un’improvvisa tempesta scomparve e Venere lo
trasportò nell’Olimpo, dove divenne una divinità, onorata in seguito dai Romani
col nome di Giove Indigete. Il figlio
di Enea, Ascanio-Iulo fondò poi la
città di Albalonga e i suoi
successori danno origine alla dinastia dalla quale, dopo varie generazioni, Rea Silvia darà
alla luce Romolo e
Remo e in seguito la gens Iulia,
con Giulio Cesare e il primo imperatore Augusto.
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La Civilta’ cumana. La storia
Cuma (Cumae in latino) è un sito archeologico della provincia di Napoli, nei pressi del territorio
di Pozzuoli, localizzato nell'area vulcanica dei Campi Flegrei. Il nome deriva dal nome greco Κύμη (Kýmē), che significa “onda”, facendo riferimento alla
forma della penisola sul litorale campano
di fronte all'isola di Ischia.
Il territorio fu abitato fin dall’età
preistorica e protostorica. Fra tutte le colonie elleniche della Magna
Grecia, Cuma era una delle più antiche e più lontane dalla madrepatria.
In linea di massima si pensa che sia
stata fondata intorno al 740 a.C.,
alcuni decenni dopo che un gruppo
di coloni euboici avevano fondato l’emporion di Phitekoussai (Ischia), anche
se la più antica documentazione archeologica risale al 725-720 a.C.
La storia di Cuma è suddivisa in 5 fasi:
- Fase pre-ellenica
(X secolo – 740 a.C.)
- Fase greca
(740 a.C. – 421 a.C.)
- Fase sannitica
(421 – 338 a.C.)
- Fase romana
(338 a.C. – 476 d.C.)
- Fase medievale
(476 d.C. – 1207)
- Fase moderna
Della fase
pre-ellenica di Cuma, caratterizzata dalla presenza dell’insediamento indigeno, conosciamo
solo l’area adibita a necropoli.
Le sepolture appartengono a una comunità della
cultura meridionale delle tombe a fossa della
prima età del Ferro, stabilitasi
molto probabilmente sul Monte Cuma.
Alcuni vasi provenienti dai corredi presentano forti affinità con il materiale ceramico
della seconda fase della cultura laziale (830-770 a.C.) e con quello delle altre
necropoli dell’Italia meridionale. Il processo di formazione di questa comunità
ha forse avuto inizio già nel tardo
Bronzo (XI-X sec a.C.), data alla quale risalgono alcuni rinvenimenti
sporadici.
Dalle sepolture se ne ricava l’immagine di una comunità fiorente con un processo di
differenziazione sociale già compiuto e in contatto l’ambiente villanoviano già a
partire dalla fine del IX sec. a.C.
A partire dal secondo quarto dell’VIII sec. a.C. la presenza di ceramica euboica e attica
attestano anche il precoce contatto con il mondo greco.
Infatti, secondo la leggenda, i fondatori
di Cuma furono gli Eubei di Calcide, che
sotto la guida di Ippocle di Cuma (è dibattuto se si sia trattato di Cuma
euboica o di Cuma eolica, ma probabilmente si tratta della prima)
e Megastene di
Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal
volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali.
I fondatori trovarono un terreno particolarmente fertile ai margini della
pianura campana. Pur continuando le loro tradizioni marinare e commerciali, i
coloni di Cuma rafforzarono il loro
potere politico ed economico proprio sullo sfruttamento della terra ed estesero
il loro territorio contro le mire dei popoli confinanti.
Tante furono le battaglie che i
Cumani combatterono per difendere la propria terra dagli attacchi degli Etruschi di Capua,
degli Aurunci e
dalle popolazioni interne della Campania.
Col passare del tempo, Cuma stabilì il suo predominio su quasi tutto il litorale
campano fino a Punta Campanella, raggiungendo il massimo della sua potenza. La
riscossa dei popoli confinanti però non si lasciò attendere a lungo, infatti
nel 524 a.C. gli Etruschi di Capua
formarono una lega con altre popolazioni, per conquistare Cuma ed espandersi sia
territorialmente che commercialmente. Lo scontro si risolse favorevolmente per i
Cumani, grazie anche all'abilità strategica del tiranno Aristodemo detto Màlaco.
Dopo questa battaglia ne seguirono altre due vittoriose per i Cumani, una prima
accanto ai Latini ad Aricia contro
gli Etruschi e
una seconda nel 474 a.C. al fianco dei
Siracusani i quali avevano inviato la loro flotta sempre
contro gli Etruschi, riuscendo
definitivamente a cacciarli dalla Campania. Scontro ricordato come battaglia
di Cuma. Le gloriose vittorie della colonia ne avevano accresciuto il
prestigio, tanto che a quanto riferisce Diodoro
Siculo, col nome di “campagna di Cuma” si soleva indicare tutta la regione
dei Campi Flegrei.
La fortuna di Cuma non resisté a lungo poiché, intorno al 421 a.C. soccombettero all'avanzata dei Campani che la
conquistarono.
Nella conquista romana della Campania, a Cuma fu data (nel 334 a.C.) la civitas sine suffragio e quando, oltre un
secolo dopo, Annibale tentò
in ogni modo di conquistarla insieme a Puteoli,
essa gli si oppose risolutamente infliggendo, presso
Hamae (che alcuni studiosi identificano nei dintorni dell’attuale Torre di Santa Chiara,
mentre altri più al nord, verso il Volturno)
una dura sconfitta alle truppe di Capua che si allearono coi Cartaginesi
(215 a.C.).
Da allora Cuma si servì della lingua latina nei suoi atti ufficiali e fu fedele
alleata di Roma di cui diventò municipium.
In quel periodo la Campania
era in pieno sviluppo economico e Cuma, che da un lato godeva di un'ottima
posizione strategica per le azioni militari, dall'altro soffriva per la
difficile comunicazione commerciale dovuta dalla presenza della Silva
Gallinaria e degli acquitrini di cui era circondata.
Durante le guerre civili Cuma fu una delle più valide roccaforti che Ottaviano oppose
a Sesto
Pompeo, ma dopo la vittoria di Ottaviano, essa diventò posto di riposo e di
quiete, un rifugio dalla vita tempestosa e agitata di Puteoli, città tanto
tranquilla che Giovenale, nella III Satira, non può fare a meno di
invidiare a un suo amico.
“Anche se sono turbato per la partenza di un vecchio amico,
tuttavia lo approvo per il fatto che ha deciso di stabilirsi nella
solitaria Cuma, e di donare almeno un cittadino alla Sibilla.
Cuma, porta di Baia, è un approdo piacevole, luogo di rifugio
delizioso. Io poi alla Suburra preferisco persino Procida”.
(Giovenale, Satire, 3.1-5)
In seguito divenne uno dei maggiori
centri del Cristianesimo campano e baluardo di civiltà. Caduta
inesorabilmente la fortuna di Puteoli a causa delle incursioni barbariche, al
contrario, Cuma posta su una collina inaccessibile, fortificata e circondata
dalla Silva Gallinaria, riuscì a resistere ancora per lungo tempo.
Durante la guerra tra Goti e Bizantini,
Cuma fu a lungo teatro di alterne vicende della lotta.
Cadde sotto il potere dei Bizantini e nel 558 d.C. fu fortificata dal prefetto della
flotta Flavio Nonio Erasto, finché passò sotto la dominazione longobarda e
governata dai duchi di Napoli.
Le scorrerie dei Saraceni le diedero il colpo di grazia. Insediati
sull'acropoli dove potevano trovare un rifugio sicuro nelle gallerie del monte,
i pirati seminarono a lungo il terrore nel golfo di Napoli, finché quest'ultimi
nel 1207 sotto il comando di Goffredo di Montefuscolo decisero di porre fine
alle razzie e alle incursioni, stanando i Saraceni nei loro covi, liberando così
il golfo.
Da quel momento Cuma fu pressoché disabitata, l'interramento delle acque del Clanis e del Volturno fece
in modo che la città e il suo territorio, soprattutto nella parte bassa,
diventassero un immenso pantano. Per secoli vi fu lungo tutto il litorale
di Licola, una palude e soltanto agli inizi del novecento se ne incominciarono
la bonifica e lo scavo archeologico.
Cuma fu la colonia che diffuse in Italia la cultura greca, diffondendo l’alfabeto Calcidese, che assimilato e
fatto proprio dagli Etruschi e dai Latini, divenne l’alfabeto della lingua e
della letteratura di Roma e poi di tutta la cultura occidentale.
Intimamente legato a Cuma è il mito
della Sibilla Cumana e del suo
antro. Già dal terzo
libro dell'Eneide è scritto che Enea, se vorrà finalmente trovare la terra destinata al suo
popolo dagli dei, dovrà recarsi ad interrogare l'oracolo di Cuma (Eneide, III,
440-452).
Tarquinio il Superbo, l'ultimo re di Roma,
visse gli ultimi anni della sua vita in esilio a Cuma dopo l'instaurazione
della Repubblica Romana.
È anche il posto dove, secondo la tradizione, fu ispirato da una visione Il
Pastore di Hermas, uno dei primi scritti cristiani.
Durante la II Guerra mondiale fu sfruttata per la sua posizione strategica e
usata come bunker per l'utilizzo di cannoni.
• Il
Parco Archeologico
Il Parco Archeologico di Cuma è composto dall’ Acropoli e dalla città bassa.
L’Acropoli è composta dai seguenti
monumenti:
- Il cosiddetto“antro della Sibilla”
- La Crypta Romana
- La “torre bizantina”
- Il tempio di Apollo
- Il cosiddetto “tempio di Giove”
La città bassa è composta dai
seguenti monumenti:
- Il Capitolium
- Il “tempio con portico”
- Le Terme del Foro
- L’“Arco Felice”
- La Masseria del Gigante
I
Greci collocarono l’acropoli della città su due terrazze
e su di uno sperone meridionale del Monte di Cuma, integrando le difese naturali con mura di fortificazioni, di cui si
conservano cospicui resti. Le più antiche opere di difesa sono costituite da un
muro di età sannitica, costruito in blocchi di tufo, e da una muraglia di
età greca delimitante a nord e ad est il santuario di Apollo.
Diventata nel tardo impero un castro, l’acropoli fu teatro delle guerre dei
Goti e dei Bizantini nel VI sec. d.C., e venne successivamente, nel 915 a.C., conquistata e devastata
dai Saraceni, diventando da quel
momento covo dei pirati. Infine, fu definitivamente
distrutta nel 1207
Antro della Sibillaa
L’Antro
della Sibilla è una galleria che si presenta attualmente molto danneggiata
nel primo tratto a causa del crollo della copertura causato da opere moderne.
Ha un andamento rettilineo, è alta
circa 5 metri e lunga oltre 130. È scavata interamente nel
tufo e presenta un’inconfondibile sezione dovuta a due distinte fasi di escavazione: al
IV-III sec. a.C. risale la parte superiore a sezione trapezoidale, mentre
all’età romana è riferibile il taglio rettangolare che abbassò la quota
pavimentale al livello attuale.
Sul lato destro si aprono nove bracci secondari, dei quali tre sono ciechi, mentre gli altri
consentivano l’accesso alla terrazza che dominava il porto, oggi interrato. A
circa metà del percorso, sul lato sinistro, si sviluppa una diramazione
articolata in tre ambienti, sfruttati in età romana come cisterne ed in epoca
paleocristiana per l’alloggiamento di sepolture. La grotta termina in un vasto
ambiente rettangolare coperto a volta, che dà accesso, verso sinistra, a un
cubicolo tripartito con porte o transenne, testimoniate dai fori di fissaggio
sugli stipiti; questo sarebbe il luogo, più riposto e segreto, in cui
la Sibilla
Al momento della sua scoperta, negli anni ’20 del Novecento, fu identificata con
l’Antro della Sibilla, ossia il santuarioo
in cui la somma sacerdotessa dell’oracolo
del dio Apollo offriva servigi ai pellegrini; l’indovina, ispirata dalla
divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma, le quali,
alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento
aperture dell’antro, rendendo i vaticini “sibillini”. Studi recenti hanno
rimesso in discussione questa identificazione, proponendo invece di riconoscere
nella galleria un’opera dell’antica ingegneria militare
Cripta Romanaa
La
Crypta Romana è un tunnel
scavato nel tufo
costituito da un corridoio
d’ingresso originariamente lungo circa 30
metri, è coperto da una volta a botte, su cui sono ancora visibili le tracce
dell’armatura lignea usata per la messa in opera. Le pareti presentano un
paramento in opera reticolata con ammorsature in tufelli. La ghiera del fornice
orientale, a blocchetti di tufo, è sormontata da due file di cubilia.
Superato questo corridoio, si accede a un grande
vestibolo a pianta rettangolare, il cui pavimento originario doveva essere a
un livello più alto di quello attuale. La parete a sinistra, in opera vittata,
presenta quattro grandi nicchie in opera reticolata, destinate a ospitare statue
e funzionali a scaricare il peso della muratura; la parete di destra reca tracce
di numerosi restauri.
La volta, alta 23 metri
L’assetto dell’attuale sbocco orientale della Crypta forse non corrisponde a quello antico:
il cattivo stato di conservazione e la fitta vegetazione non ne permettono
infatti un’esatta ricostruzione. Nel V sec. d.C., quando la città bassa fu
abbandonata sulla spinta delle pressioni barbariche,
la Crypta perse la sua funzione di collegamento.
Successivamente, durante la guerra greco-gotica (VI sec. d.C.), il generale Narsete, per espugnare la città, fece
scavare una serie di cunicoli nella volta, provocandone il crollo. Da allora la Crypta andò
progressivamente a interrarsi, infatti attualmente è osservabile solo dall’alto.
Tempio di Apolloo
Il
tempio di Apollo sorge nel lato meridionale della terrazza inferiore ed
è rivolto ad Est, in direzione della città bassa.
Poco si conserva della fase più antica
del santuario, di età greca o
sannitica. Ad essa appartengono alcune strutture emerse nell’area
circostante, interpretate come un sacello anteriore al primo impianto templare e
come il temenos del
santuario, attualmente non visibili perché interrate o nascoste dalla
vegetazione.
L’edificio originario era orientato in senso nord-sud e di esso resta solo il
basso podio in blocchi di tufo. L’elevato
risale invece all’età augustea,
quando il tempio fu ricostruito con l’aggiunta di un
pronao sul lato est e con la
realizzazione di una facciata monumentale protesa sul ciglio della terrazza con
funzione scenografica.
La trabeazione era
decorata con rivestimenti architettonici in terracotta, dei quali sono stati
rinvenuti vari frammenti, con soggetti
zoomorfi e antropomorfi. Era circondato da un
colonnato o peristasi
Il santuario fu trasformato in basilica
cristiana intorno al V sec. d.CC., murando gli intercolumni perimetrali e
ponendo l’ingresso sul lato ovest. Sul lato esterno sud-ovest sono visibili i
resti di un basamento ottagonale interpretato come un fonte battesimale. Nel
pavimento della basilica furono scavate più di novanta fosse sepolcrali.
Nella terrazza è possibile osservare
anche una serie di ruderi di varia epoca e di controversa interpretazione, il
primo dei quali è la cosiddetta cisterna
greca. Si tratta di un ambiente
ipogeo a pianta rettangolare, i cui lati maggiori, a sezione trapezoidale,
sono orientati est-ovest e sono costituiti da dieci filari di grandi blocchi
irregolari di tufo giallo locale, posti in opera con tecnica isodoma. Un
pozzetto rettangolare nell’angolo sud-est del pavimento mostra altri tre filari
di blocchi impiegati per la fondazione. Difficile è stabilire il tipo di
copertura dell’edificio. L’ingresso era forse sul lato sud, dove i blocchi della
muratura sono interrotti. La tecnica di costruzione fa ipotizzare una datazione
al VI-V sec. a.C., per cui sarebbe la più antica struttura conservata nell’area
del tempio.
L’ambiente è stato interpretato come
cisterna per la raccolta di acqua destinata alle esigenze del santuario,
oppure come il vero antro della Sibilla
Tempio di Giovee
Il cd. “tempio
di Giove” sorge sulla terrazza più alta dell’acropoli ed era
probabilmente consacrato a Demetra.
Il santuario fu probabilmente eretto verso la
fine del VI sec. a.C. ma nel corso
del tempo fu oggetto di numerosi interventi e trasformazioni, non ricostruibili
con precisione, ma che ne rispettarono sempre il primitivo
orientamento est-ovest. I
resti oggi
visibili sono relativi all’età romana e a quella
bizantina, quando il tempio fu
trasformato in basilica.
Del tempio greco periptero
(fine VI-prima metà del V sec. ) resta il basamento orientato est-ovest, in
blocchi di tufo giallo posti sul perimetro e su quattro allineamenti.
Abbandonato forse in età sannitica, l’edificio fu riedificato nella
prima età imperiale, quando si datano
le strutture in reticolato e laterizio. In
età giulio-claudia, infatti, venne
realizzato un tempio a portico
Tra V e VI sec. d.C. il tempio fu
trasformato in basilica cristiana, caratterizzata da cinque navate, di cui
le tre centrali più alte delle laterali. L’altare in muratura, rivestito in
marmo, fu appoggiato alla parete di fondo e nell’ambiente alle spalle della
cella venne realizzato un fonte battesimale circolare, rivestito di lastre
policrome di marmo con sei colonne marmoree.
Nell’VIII sec. fu dedicata a S. Massimo
martiree
Laa città bassa
Ai piedi dell’acropoli si estende la
città bassa, il vero e proprio abitato di Cuma
L’aspetto attuale deriva dalla
sistemazione che ebbe in età tardo-
repubblicana (fine II sec. – fine I sec. a.C.). Il Foro è caratterizzato dalla presenza sul lato breve occidentale dal
Capitolium, mentre nei lati lunghi vi
erano dei porticati di età sillana, in tufo grigio rivestito di stucco bianco,
elevati su due ordini e caratterizzati da semicolonne addossate a pilastri e da
un fregio dorico con triglifi e metope.
Successivamente, probabilmente in età triumvirale (43-31 a.C.), fu aggiunto nei
pressi del Capitolium un altro tratto di porticato, costituito da un doppio
ordine di colonne (corinzio e ionico), al quale è attribuibile il fregio
continuo decorato con armi, di cui sono stati rinvenuti alcuni frammenti. Alla
fine del I sec. d.C., l’accesso alla piazza lungo il lato occidentale fu ridotto
ad una semplice porta che immetteva nel porticato, poiché la strada che correva
lungo il lato meridionale del Foro fu chiusa dalla costruzione di una fontana
monumentale nel fianco del Capitolium.
In seguito alla costruzione sul lato meridionale della piazza del “tempio con portico”, il piano di
calpestio fu ribassato di circa 50 cm, lievemente inclinato, in modo da
convogliare le acque reflue in una canaletta di scolo, e pavimentato con lastre
di travertino bianco. Sul lato est della piazza vi sono resti di un edificio in
opera mista, inglobato nella cosiddetta “Masseria
del Gigante”, la cui funzione originaria non è molto chiara. Nell’area a
nord-ovest del Foro, è possibile osservare i resti delle
Terme del Foro, costruita all’inizio del II sec. d.C.
A sud-est del Foro, oltre la strada moderna, sono i resti parzialmente nascosti
dalla vegetazione delle
Terme Centrali, il più antico edificio termale di
Cuma, poiché il suo impianto risale all’età sannitica, tradizionalmente noto
come tomba della Sibilla.
Nella parte bassa della città, ai piedi del
Monte Grillo, fu realizzato nel II
sec. a.C. l’Anfiteatro
Capitoliumm
Il
Capitolium
In età romana, nel I sec. d.C., fu restaurato, trasformato e dedicato alla
triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva). Il tempio, posto su un alto podio,
secondo l’uso italico, era circondato da un peristilio con sei colonne sulla
fronte ed aveva la cella a tre navate, precedute da un ampio pronao.
All’interno della cella dovevano essere collocate le colossali statue della
triade Capitolina, delle quali sono
stati scoperti i busti, databili tra la fine del I sec. e la prima metà del II
sec. d.C., ora conservati nel Museo
Archeologico Nazionale di Napoli
Tempio con porticoo
Il Tempio sorge nel Foro della città,
dietro il portico meridionale. È un
tempio in antis su alto podio, orientato nord-sud, circondato su tre lati da
un portico e costruito probabilmente in
età giulio-claudia
Al portico si accedeva mediante tre ingressi con gradini in peperino. Nel suo
muro perimetrale si aprono quattro nicchie simmetriche, destinate a contenere
statue onorarie, e finiva con due grandi absidi, che presentano ancora tracce di
intonaco bianco a specchiature di colore blu, giallo e rosso scuro. Il portico,
del quale oggi si conservano solo le basi quadrangolari in peperino di 24
colonne, correva lungo tre lati, delimitando un cortile pavimentato con lastre
di travertino. Del tempio attualmente sono visibili il podio, la gradinata di
accesso al pronao e i muri dell’unica cella absidata in opera mista, nella quale
è conservato il basamento della statua di culto.
Non si conosce la divinità a cui il
tempio era dedicato ma è stato ipotizzato che in realtà fosse la
sede del Collegio degli Augustali cumani.
Terme del Foroo
Le Terme erano situate nell’area a nord-ovest del Foro, su un luogo
precedentemente occupato da abitazioni di età tardo-repubblicana. Furono
costruite in un momento di intensa attività edilizia, pochi decenni
dopo l’apertura della via Domitiana
Il complesso in origine aveva due
ingressi pubblicii: il primo a sud, sulla via che costeggia il Capitolium,
che immetteva nel corridoio porticato e nella palestra, il secondo ad est, su
una strada perpendicolare alla precedente, che introduceva direttamente nel
vestibolo. Il vestibolo con un passaggio colonnato immetteva nel frigidarium (la parte in cui potevano essere presi bagni in acqua fredda), che era dotato
di vasche per i bagni sui lati nord ed ovest ed ampie finestra sulle pareti,
alcune delle quali furono murate in seguito. Gli ambienti a sud del vestibolo, a
cui si aveva accesso tramite un disimpegno, erano in ordine:
tepidarium (parte destinata ai bagni
in acqua tiepida), sudatio (ambiente
adibito ai bagni di vapore) e calidarium
(parte utilizzata per i bagni in acqua calda). Alle spalle del calidarium vi era
il praefurnium, da cui veniva
distribuito il calore nelle sale, attraverso le intercapedini delle pareti e dei
pavimenti, realizzate con tubi fittili a sezione rettangolare. Il rifornimento
idrico era assicurato da una cisterna
divisa in quattro serbatoi, posta su di un alto podio a nord-ovest del corpo
principale. Nel III sec. d.C. vennero aggiunti alcuni ambienti e vennero
eseguite opere di restauro e consolidamento.
L’edificio doveva essere riccamente decorato, come dimostrano numerosi resti di
rivestimenti scoperti durante gli scavi, ossia lastre di marmo, cornici di
porfido, mosaici con tessere bianche e nere, zoccoli modanati, intonaci dipinti.
Le coperture dovevano essere di diversi tipi (a botte, a crociera, a catino) e
l’illuminazione era assicurata da finestre e lucernari nelle volte. Quando in
età tardo antica l’abitato di Cuma si concentrò sull’acropoli, il complesso
termale venne progressivamente abbandonato e alcuni ambienti in età alto
medioevale furono trasformati e riutilizzati.
Arco Felicee
All’esterno del Parco Archeologico è situato l’ “Arco Felice” che si raggiunge,
tornati sulla Provinciale, dopo 400 m. Era l’ingresso monumentale della città lungo
il lato orientale. Fu costruito nel
95 d.C. per consentire il passaggio
della via Domitiana attraverso il Monte Grillo
E’ stato ipotizzato che per la sua edificazione sia stato necessario ampliare il
taglio nel monte che, probabilmente, già sussisteva in età greca; in questo modo
il monumento aveva sia la funzione di
contenimentoo per eventuali frane e smottamenti del terreno, sia di
viadotto per il collegamento fra le due parti della cresta del Monte Grillo. L’arco era
costituito da un solo fornice alto 20 m
ed era sormontato da due ordini di archi; i piedritti presentavano su entrambe
le facce tre grandi nicchie destinate ad accogliere statue.
Dell’originaria struttura romana sono oggi visibili solo l’intradosso e parte
della facciata occidentale. Al di sotto c’è un piccolo tratto basolato
dell’antica via Domitiana
Masseria del Gigantee
Si tratta di un edificio in opera mista,
situato sul lato est del Foro, realizzato
tra la fine del I e l’inizio del II sec. d.C.
Il nome di “Tempio del Gigantee”,
assegnatogli dalla tradizione antiquaria, è legato al ritrovamento, nelle
vicinanze, della colossale statua di
Giove, che in origine era posta nella
cella del Capitolium. Per quanto riguarda la funzione originaria di questo
edificio, per alcuni studiosi si tratterebbe di un
tempio su podio, orientato est-ovest, preceduto da un pronao a gradinate, con cella
rettangolare, e del tipo a portico, in quanto situato al fondo di un cortile
porticato. Per altri studiosi, invece, per la sua struttura tripartita e per la
sua collocazione forense di fronte al Capitolium potrebbe trattarsi di
sale destinate agli organi dirigenti
della città oppure del Comitium.
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